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martedì 17 aprile 2012

"L'isola che non c'è più" di Ivano Nanni

Sull'incontro di lunedì 16 aprile con Mario Isnenghi e il suo libro "Dieci lezioni sull'Italia contemporanea".

Nelle prime righe del suo libro, “ Dieci lezioni sull'Italia contemporanea “, il prof. Mario Isnenghi, con il disincanto ironico di chi conosce le Storia e le storie italiche, rivela che il dipartimento di Studi storici a Ca' Foscari è stato chiuso insieme ad altri dipartimenti, evidentemente per mancanza di fondi. “Perché mai dovrebbe rimanere aperto un dipartimento di studi storici in questa epoca dove conta ben altro che la riflessione storica per fare politica”?
Sono parole pungenti che insistono sull'insipienza diffusa in ambito politico, che forse è la “qualità” più evidente della politica odierna, confinata in una imbarazzante mancanza di prospettiva teorica, alla ricerca di soluzioni progettate unicamente per riprodursi spudoratamente senza un disegno realistico credibile.
Una  politica siffatta è una caricatura di se stessa, e non può fare altro che produrre interventi sciagurati, mercificazioni parlamentari, truffe civiche di portata epocale, scandali che ormai passano in giudicato senza quasi lasciare traccia nella memoria tanta è la rassegnazione nei cittadini. A guardare quello che succede, con uno sguardo dal di fuori,  si direbbe che in Italia governano un gruppo di futuristi influenzati dal  neo-espressionismo astratto con propensione all'informale. A questo governo non serve una critica politica serve una critica d'arte che smonti le loro tesi fintamente d'avanguardia. D'altro canto per fare una critica politica vera servirebbe appunto la conoscenza dei fatti in una prospettiva storica che non è richiesta ai politici.
Sapere qualcosa di quello che è stato è una cosa in più, una specie di zavorra mentale inopportuna,  meglio non avere zaini troppo pesanti da portare: la politica si muove veloce, occorre essere snelli per fare le acrobazie.  Palestra parolaia e monologante, teatrino del patetico e del consunto, palcoscenico di burloni, circo degl'incivili che danno buona prova di sé ecco a cosa si è ridotta la nostra politica; ma allora, se è così, e pare che lo sia, per decreto presidenziale inoppugnabile, che  si incarichino i critici teatrali di scrivere i programmi dei partiti e di criticarne le tesi, che si affidi a Luca Ronconi la direzione del Pd e non a Bersani, che arrivi un Eugenio Barba dalla Danimarca a far danzare gli spettri del Pdl, e che si inviti il Living Theatre a Montecitorio a proporre le sue “Meditazioni sul sadomasochismo politico”.
Non servirebbe ad uscire dalla crisi ma almeno ci divertiremmo.
È vero che abbiamo avuto una storia “grande e terribile” della quale dobbiamo andare fieri, ma la nostra propensione  a ignorare non solo i fatti passati ma anche quelli più recenti dei quali la memoria dovrebbe conservare tracce più calde, ci fa sembrare come  un popolo di struzzi.
La smemoratezza sembra guadagnare spazi mentali sempre più vasti perseguendo uno scopo non troppo occulto, vale a dire ridisegnare la nostra esistenza all'insegna del “cupio dissolvi” di cui si ha solo una vaga percezione.
In altre parole c'è la sensazione di  polleggiare vacuamente tra  oggetti e soggetti le cui relazioni realisticamente costituiscono il tessuto della società ma delle quali non si riesce a cogliere i rimandi con il passato, e questa mancanza, questo vuoto, è fonte primaria di angoscia spesso inconscia.
In giro c'è l'esigenza di trovare qualche punto fermo dal quale partire per riordinare  pensieri improbabili ai quali servono prospettiva storica e rimandi documentati al passato per non essere dominati dall'infausta legge del “pressapoco così va bene”.
Nessuno in politica si salva dalle sirene del populismo e della polizia. C'è una corsa ad ostacoli sempre più bassi dove ogni microbo, ogni particella politica infinitesimale, ogni patetico  campanile può produrre il suo danno e richiedere la sua mercede sotto forma di rimborso elettorale.
Per non parlare del lessico, delle frasi fatte, dell' imperio del luogo comune demenziale,  tutto nella palestra dell'opinionismo politico viene centrifugato alla velocità del suono,  omogeneizzato, fuso  in un linguaggio lessato che ci ammorba.
L'edulcorazione della realtà passa attraverso l'attribuzione di sinonimi zuccherosi a parole che non si devono pronunciare principalmente per ridurne la loro portata significativa.
Ad esempio: angoscia è sostituita con la parola disagio, quasi sempre seguita dall'aggettivo esistenziale. Ma l'angoscia è molto di più del disagio, che è sinonimo di scomodità; si è a disagio con una giacca troppo stretta, se le scarpe strette sono scomode, una postura scorretta crea disagio; ma l'angoscia indica una minaccia incombente, un pericolo che oscura ogni pensiero e che non fa penetrare nessuna luce, un groviglio che ci chiude ogni speranza di soluzione, che non permette nemmeno di digerire bene, ed è a differenza dell'ansia il sintomo di una mancanza vera, gli psicologi direbbero di un lutto. Manca il lavoro, manca il denaro, le famiglie si sfasciano, le persone si suicidano: questa è angoscia quotidiana. La parola giustizia, ad esempio, è sparita dalla vulgata politica. Al suo posto si è insinuata una parolina meno severa, meno evocativa di possibili punizioni, una parola che non fa male a nessuno: equità. Non è uguaglianza e non è giustizia, è la neutralità verbalizzata.
Tanto per essere politicamente dadaisti si potrebbe dire che l'equità è la quintessenza del cavallo, la cavallinità, una categoria che comprende tutti i cavalli del mondo, di quelli che sono stati e di quelli che saranno. Sta tutta qui la visione politica dei nostri eletti. Non si deve pensare ai cavalli  ma   alla cavallinità.  E' semplice e pulito: con la cavallinità, si possono far sparire tutti i cavalli senza spargere una goccia di sangue, mentre pensare al cavallo  vero vuol dire pensare a quello che serve per farlo campare, significa organizzare  un mucchio di cose tutte insieme e che vanno bene per il cavallo. Fatti due conti è meglio pensare a una cosa sola è più facile e costa meno. Ecco perché i nostri politici preferiscono la cavallinità.
di Ivano Nanni

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