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martedì 15 novembre 2011

"Il senso di Cavazzoni per la grazia..." di IVANO NANNI

Sull'incontro di lunedì 14 novembre con lo scrittore reggiano ERMANNO CAVAZZONI e il suo libro di racconti "Guida agli animali fantastici" edito da Guanda.

A quei tempi, o come direbbero gli eruditi, Temporibus illis, chi aveva aspirazioni di scrittore doveva tenersi care le Muse. Gli scrittori antichi le invocavano per trovare la forza necessaria per scrivere, e se le avevano invocate come si conveniva dimostrando buona predisposizione, serenità d'animo, umiltà e cultura le immagini e le parole fluivano per concessione fiduciaria di queste signore che premiavano il fortunato con l'ispirazione. E qui le muse si fermavano. Naturalmente il lavoro duro toccava a quello scansafatiche del poeta, al perdigiorno, all'ozioso che osservava le nuvole da un angolo in ombra del giardino, e meditava stranito sul senso della vita e sugli armenti ai pascoli, stava a lui cercare le parole che con grazia e armonia servissero al meglio la sua ispirazione.
Cavazzoni come un poeta antico chiama le Muse con un bisbiglio, tanto per tenerle al corrente delle sue prove letterarie, ma per scrivere le sue storie, lascia fare alle immagini e alle parole in una democritea anarchia di derive, iperboli, incroci e scontri mentre lui se ne sta in disparte, avvolto in una nube di serafica e apparente distrazione, attento a quelle che avviene senza intervenire, presente ma non partecipe a quello che si va formando; sta ai margini, un po' come l'autore joyciano, non so se a limarsi le unghie fischiettando, o a fare altro ma di sicuro con le orecchie tese in ascolto: in tutta umiltà nel silenzio attende l'arrivo delle parole.
C'è una specie di chimera che aleggia intorno a noi e che oggi è poco più che una parola desueta. Di questa chimera(la grazia), non si ha nessuna informazione certa e non ci aiutano i libri mitologici che raccontano di stranezze ornitologiche ibridate con felini, quella che noi cerchiamo è più che altro un sentimento latente che trova a stento la via dell'apparizione soffocato da una incredibile dose di affanni. Senza dubbio è presente e attende solo un calo di arroganza per potersi affermare, attende che quel grumo pastoso di inciviltà che ne impedisce l'avvenimento si faccia da parte, frani a valle e lasci libera una vista superiore.
Chi scrive( in generale), si pone nella condizione del cercatore d'oro, avendo compassione e partecipazione per qualunque cosa, cerca come sola e unica urgenza accordi di parole che lo facciano sentire “ puro e disposto a salire alle stelle “. Riuscire a raccontare. E cosa significa questo raccontare se non raccogliere tutte le suggestioni che vengono da fuori e portarle dentro e poi riportarle fuori in modo che le parole concedano ai lettori il privilegio di leggere parole aggraziate e sentirsi sul cammino di una promettente evoluzione. Non so se esattamente le cose stiano in questo modo, ma sono portato dalle suggestioni dovute all'ascolto di certi accordi, a dire qualcosa che ricacci indietro lo spaesamento che mi prende ogni volta che ascolto parole sgangherate in una libera sequenza di volgarità e vanità e arroganze che non danno tregua, per non dire dei cliché linguistici, delle frasi fatte e sfatte, che sono il segno della nostra sconfitta come animali parlanti dall'espressione argomentata e complessa.
Allora per non rimanere congelato nella stretta mortale delle parolacce, se per una sera, e poi leggendo e rileggendo parole che hanno tutto della grazia, andrò oltre la cortina fumogena della mischia parolaia, significa che per un momento mi sarò accordato con quelle parole e se lo farò più spesso quegli accordi si radicheranno sempre di più fino a diventare parte integrante di me e potrò forse perfino sperare di riprodurli, parodiandoli, magari solo per scrivere una cartolina. E sarebbe un successo clamoroso. Cavazzoni mi ricorda diverse cose. Un libretto di appunti di Breton su una lezione di Freud, la lista della spesa di Alfred Jarry, una spettacolare lista di ingredienti miracolosi che guarivano i politici dalla balbuzie mentale, ma non dall'arroganza; ricorda Alberto Giacometti, le sue sculture dolenti e umoristiche, compassionevoli e appese a un filo, e credo che tutti se lo possano immaginare come il cavaliere che nelle terre della Mancia dà vita alla grande epopea di un mitico scrittore, quel Cervantes, che forse è solo il sogno di un solitario principe senza terra; e poi è uno spettacolare orante-oratore di lezioni di biologia e zoologia applicata alle lettere, e per finire mi ricorda una divinità romana di origine egizia, Arpocrate, il dio del silenzio. Questa divinità girovagava per bettole, non disdegnava le sagre paesane, i matrimoni, cercava di blandire i tumulti dovuti alle abbondanti libagioni, lo si vedeva sempre con l'indice della mano sopra le labbra. Oggi lo si vede, se si guarda attentamente attraverso un percettore di immagini evanescenti, è di fatto un fantasma, aggirarsi sfiduciato tra i dibattiti televisivi dei politici, sempre con il suo indice sulle labbra, ovviamente inascoltato. Asinus in tegulis era il termine con cui i latini definivano una cosa prodigiosa, quella cosa che Arpocrate non è ancora riuscito a fare nei dibattiti, forse perché gli asini non capiscono cosa significhi l'indice sulle labbra.
di Ivano Nanni

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