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sabato 2 maggio 2009

"Le guerre perdute del progresso" di IVANO NANNI

Sull'incontro con Filippo Bologna di mercoledì 29 aprile È vero che occorre guardare da lontano quello che più ci sta a cuore per vederlo meglio. Spostarsi, allontanarsi, deviare appena dal prospetto di una vista frontale sempre uguale, ci mette nelle condizioni di osservarci meglio mentre guardiamo l’oggetto della nostra attenzione. È la lontananza e una diversa angolazione a dare una nuova percezione a ciò che si lascia, che da quel momento prende nuove generalità, nuove sembianze. Viene rifatta una nuova carta di identità più riconoscibile, più vicina a quello che siamo in quel momento, ma sempre precaria e in attesa di modifiche. La provincia è uno strano mondo che in Italia assume un carattere universale. L’Italia delle borgate e dei comuni si è formata attorno al nucleo storico di grandi città, e dal nord al sud si stende un formidabile reticolo di cittadine di provincia che specie nei piccoli borghi lotta per mantenere un equilibrio più o meno intatto. Spesso ci si stupisce di come abbiano fatto certi paesi a rimanere inalterati nel tempo, e si viene a sapere che sono stati salvati da uno sviluppo caotico poco serio, da un vincolo ambientale o artistico. Qualcuno ha battezzato letteralmente certe aree distinguendole da altre attorno decretando d’ufficio la loro salvezza. Quei luoghi hanno avuto necessità di farsi incartare da documenti statali per potere sopravvivere all’assalto della concretezza del fare. Imprenditori e teorici dal dinamismo quasi futurista, fautori del demolire e del costruire diversamente, hanno imposto nuovi assetti politici e movimenti finanziari. E con questi hanno prodotto uno sgretolamento delle regole e un nuovo modo di pensare improntato in sostanza all’anarchia individualista. Si è creato volutamente il caos, e alle persone è stato lasciato credere di potersi arricchire magari sfruttando qualcosa che hanno di congenito. Può essere la bellezza del luogo o la fonte termale, o qualunque altro bene vero o inventato. Quello che conta è cambiare passo e mettersi a fianco del progresso. Credo che oggi raccontare di equilibri umani che mutano sotto la pressione isolante di un capitalismo d’assalto sia un impegno doveroso. Quello che ha prodotto Bologna con il suo romanzo è un altro elemento che affianca la migliore critica al rito di passaggio da una cultura essenzialmente contadina, e che normalmente e per sua natura tiene insieme arte, paesaggio e ambiente, a una cultura dell’assedio, che con un’alchimia uguale e contraria alla ricerca canonica tramuta l’oro in piombo. Anche qui ci si trova di fronte al grande dilemma che riguarda quello che deve essere mantenuto e quello che deve essere demolito in nome di uno sviluppo che non recede dalle sue conclusioni. Non che il tema non sia stato trattato in precedenza. Si accennava a Pasolini. Il più grande cantore di un mondo perduto, quello contadino, mutato in un curioso ibrido, violento e corrotto, spopolato dai suoi contadini diventati tutti operai incattiviti da un losco esproprio culturale, lasciato in mano alla speculazione edilizia e al decentramento culturale senza prospettive. Pasolini aveva in odio il compromesso, e il suo radicalismo appare oggi come oggi l’eresia più grande. Oggi si può parlare solo di terre coltivate e non di mondo contadino, questo mondo non esiste più da tempo, è stato soppresso e la sua cultura non esiste più. Spinti da curiosità elegiache visitiamo delle vestigia numerate, catalogate, museali, che guardiamo con la curiosità con cui si guarda l’osso di una balena. Frammenti di una vita passata, sostituita da un’altra civiltà. Ora è il compromesso a vincere e le regole che non ci sono; è il caos a vincere la guerra ma la battaglia è degna di essere combattuta sempre.
Ivano Nanni

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